se io potessi di me come solea Iulio Cesare di sé dire, sé alla età, alla felicità essere assai vivuto
come que' buoni passati Lacedemoniesi che si riputavano padri e tutori d'ogni minore, e correggevano ciascuno tutti i disviamenti in qualunque loro giovane cittadino si fusse, e aveano i suoi più stretti e più congiunti carissimo e accettissimo fossero da qualunque altri stati fatti migliori. Ed era lode a' padri render grazia e merzè a chiunque si fusse, per far la gioventù più moderata e più civile, el quale n'avesse intrapreso alcuna opera. E con questa buona e utilissima disciplina de' costumi renderono la terra loro gloriosa, e ornoronla di fama immortale e meritata. Però che ivi non era inimistà fra loro, ove gli sdegli e le inimicizie subito erano nascendo svelte e regittate; ivi una sola volontà fra tutti commune e operosa d'avere la terra ben virtudiosa e costumata. Alle quali cose tutti s'afaticavano quanto in loro era studio, forza e ingegno, e' vecchi con ammunire e ricordare e di sé stessi porgere lodatissimo essemplo, e' giovani ubidendo e imitando.
Ben confesserei a Platone que' suoi quattro furori essere nell'animo e mente de' mortali molto possenti e veementissimi, quali e' ponea de' vaticinii, de' ministerii, de' poeti e dell'amore.
Ma chi vorrà tutto ripensare seco e considerare, troverrà che in allevare e' figliuoli sono sparse molte e varie malinconie, e vederà come stanno e' padri sempre sospesi coll'animo, qual faceva apo Terrenzio quel buono Mizio perché il figliuolo suo non era tornato ancora. Che pensieri erano e' suoi? Che sospetti gli scorrevano per l'animo? Quante paure lo premevano? Temea che il figliuolo non si trovasse caduto ove che sia, o rotto o fiaccatosi qualche cosa.
Catone, quel buono antico, qual fu per sopranome savio chiamato, e riputato quanto era in tutte le cose costantissimo e severissimo, si dice spesso interlassava l'altre grandissime e publice e private sue faccende el dì, tornando molte volte a rivedere que' suoi piccinini, tanto gli parea non acerbo e doglioso avere figliuoli, ma dolce e dilettoso vedere el riso, udire le parole, godere di tutti que' vezzi pieni di molta simplicità e suavità, quali sono sparti nella fronte di quella pura e dolce prima età.
Ma io temo a me non intervenga come si scrive apo gli antichi di quel fonte sacro in Epiro, nel quale un legno infiammato si spegne, e uno spento e freddo vi si raccende.
È mi ramenta Favorino, quel filosofo d'Aulo Gelio, e tutti gli altri antichi quanto e' lodan più el latte della madre che alcuno altro.
Fonte classica:
Aulo Gellio
Lodasi quella antiqua risposta d'Anassagora, el quale come prudente e savio padre udendo la morte del figliuolo, quanto dovea con paziente e ragionevole animo disse, sapea sé avere generato un uomo mortale, e non gli parea intollerabile se chi era nato per morire già fusse morto.
aspettino e' padri veder e' nipoti de' suoi nipoti, qual si scrive vidde a sé nati divo Augusto Cesare
speri ciascun padre sé essere simile a Dionisio tiranno siracusano, quale in età d'anni sessanta né de' figliuoli di tre sue mogli, né de' molti suoi nipoti, mai acadde farne essequie alcuna;
e stia in arbitrio de' padri la vita e la morte de' figliuoli, la lunga età e la breve vita, come stette ad Altea, alla quale concessero gli dii che tanto il suo figliuolo Meleagro vivesse, quanto durava salvo e intero quel tizzone quale essa gittò crucciata in mezzo il fuoco, onde consumato il legno fu la vita a Meleagro finita;
come diceano gli antichi che, perché Atene avea il cielo puro e leggiero, però ivi erano uomini sottili e d'ingegni acuti; Tebe avea il cielo più grasso, però erano e' Tebani più tardi e meno astuti. Alcuni affermavano perché i Cartaginesi si trovavano il paese sterile e ardo, per questo a loro era forza ne' suoi bisogni avere conversazione e ospizio con molte vicine ed estranee genti, onde riveniano esperti e dotti in molta astuzia e inganni.
Come scrive Platone, quel principe de' filosofi, che ogni costume de' Lacedemoniesi era infiammato di cupidità di vincere, così stimo alla terra nostra il cielo produce gl'ingegni astuti a discernere el guadagno, el luogo e l'uso gli incende non a gloria in prima, ma ad avanzarsi e conservarsi roba, e a desiderare ricchezze...
Quanto, Adovardo, se io ti dicessi ch'e' padri non avessino a sofferire delle fatiche, sendo ogni vita, come dicea Crisippo, grieve e laboriosa. Nessuno si truova mortale a chi el dolore non tocchi.
Però farei come faceva quello Apollonio alabandese retorico quale, se i giovani non gli pareano bene atti alla eloquenza, gli traduceva a quegli a mestieri da natura più si gli afaceano, e non se gli lasciava appresso perdere tempo.
E scrivesi di quelli Ginnosofiste, populi orientali, riputati fra gl'Indii savissimi, che allevavano e' nati non a voglia e desiderio del padre, ma secondo el ditto e sentenza di que' publici savi, a' quali era officio notare il nascimento e l'effigie di ciascuno. Indi giudicavano quanto e a che cosa fussero meglio atti, e in quelle come da questi prudenti vecchi era commendato, sé essercitavano. E se fussero stati a' buoni essercizii deboli e disadatti, non era chi volesse perdervi né spese né fatiche: dicesi gli gittavano e talora gli anegavano.
Così facciano e' padri a quello ch'e' figliuoli sono atti, ascoltino l'oraculo d'Apolline, quale rispuose a Cicerone: «segui coll’opera e colla industria là dove la natura e lo ‘ngegno tuo ti tira».
E un diligente padre di dì in dì compreenderà e penserà per meglio iudicare ne' figliuoli ogni piccolo atto, ogni parola e cenno, come si scrive fece quel ricco agricoltore Servio Oppidio canusino: perché e' vedea uno de' suoi figliuoli sempre avere el seno suo pieno di noci, giucare e donare a questo e a quello, l'altro vedea egli tutto quieto starsi e tristerello, anoverandole e per le bucherattole transponendole, conobbe per questo solo indizio in ciascuno di loro che ingegno e animo vi fussi. Però, morendo gli chiamò, e disse dividea loro la eredità, perché e' non volea, se alcuna pazzia toccasse loro, avessero insieme materia d'adirarsi. E feceli certi come e' vedea non erano di una natura, ma l'uno sarebbe stretto e avaro, l'altro prodigo e gittatore. E non voleva dove in loro fusse tanta contrarietà d'ingegno e di costumi, ivi fussero simili e' loro animi oppositi e contrarii. E dove nella masserizia e spese non fussero d'una opinione e volere, provedeva fra loro venisse ira niuna, né vi cadesse dissidio alcuno di ferma benivolenza e amore. In costui adunque fu buona e lodata diligenza.
Scrive Plutarco per solo un guardo quale a certi vasi barbari fé Demostene, che subito Arpallo conobbe quanto e' fosse avaro e cupido.
Platone solea riprendere quel suo Dione di troppa solitudine, dicendo che la solitudine era compagna e coniunta alla pertinacia.
Catone vedendo un giovane ozioso e solo, lo domandò quello che facesse. Questo gli rispose, favellava da sé a sé. «Guarda», disse Catone, «che tu non parli testé con uomo alcuno cattivo».
E' Lacedemoniesi facevano andare e' fanciulli loro la notte al buio sopra e' sepulcri per asuefarli a non temere né credere le maschere e favole delle vecchie. Conoscevano, quanto uomo prudente niuno dubita, l'uso in tutta l'età valere assai, e nella prima adolescenza più quasi avere forza che in tutte l'altre.
Solea Socrate, quel padre de' filosofi, per essercitarsi non rarissimo e in casa e, come lo descrive Senofonte, in conviti ballare e saltellare, tanto stimava licito e onesto per essercitarsi quello che certo altrove sarebbe lascivo e inetto.
Vedilo come sieno e' fanciulli allevati in villa alla fatica e al sole robusti e fermi più che questi nostri cresciuti nell'ozio e nella ombra, come diceva Columella, a' quali non può la morte agiugnervi di sozzo più nulla.
Scrive Erodoto, quello antico greco nominato padre della istoria, che doppo la vittoria di Cambise re de' Persi avuta contro gli Egizii, furono l'ossa de' molti morti ivi ragunate, le quali poi a tempo benché mescolate insieme, facile si riconosceano, però che e' teschi de' Persi con minima percossa si sgretolavano, quegli vero degli Egizii erano durissimi e a ogni gran picchiata reggevano; e dice di questo esserne cagione ch'e' Persi più dilicati usavano el capo coperto, quelli Egizii persino da fanciulli sé adusavano a star sotto la vampa del sole e sotto le piove, e a notte al vento e sereno sempre col capo discoperto. Certo adunque molto da considerare quanto questo uso vaglia, che dice de' Persi per questo mai quasi niuno si vede esser calvo.
Così volse Licurgo, quello prudentissimo re de' Lacedemoni, ch'e' cittadini suoi s'ausassino da piccoli non con vezzi, ma nelle fatiche, non in piazza co' sollazzi, ma nel campo coll'agricoltura e colli essercizii militari. E quanto bene conoscea potere assai l'essercizio in ogni cosa!
Demostene ateniese oratore, non fec'egli collo essercizio la lingua agile e versatile, il quale avendo le parole da natura pigre e agroppate, si empieva la bocca di calculi, e appresso de' liti con molta voce declamava? Giovògli questo essercizio tanto che niuno poi era più di lui soave a udirlo, niuno quanto lui netto e spiccato a proferire.
Scrivono che Stifonte megaro filosofo da natura era inclinato ad essere ubriaco e lussurioso, ma con essercitarsi in scienza e virtù vinse la sua quasi natura, e fu sopra gli altri costumatissimo.
Virgilio, quello nostro divino poeta, da giovane fu amatore, e così di molti altri si scrive...
Metrodoro, quel filosofo antiquo, el quale fu ne' tempi di Diogene cinico, tanto acquistò con uso ed essercitazione della memoria, che non solo riferiva cose insieme dette da molti, ma ancora con quel medesimo ordine e sito profferiva le medesime loro parole.
Che diremo noi di quel sidonio Antipar, el qual soleva per molta essercitazione e uso essametri e pentametri, lirici, comici, tragedi e ogni ragion di versi, ragionando di qualunque proposta materia, espremere e continuato proferirgli senza punto prima avergli pensato? A costui, per molto avervi l'ingegno essercitato, fu possibile e facile fare quello quale a' meno essercitati eruditi oggi con premeditazione e spazio si vede esser fatigoso.
Ben lo conoscevano e' Pitagorici, e' quali fermavano con essercizio la memoria riducendosi ogni sera a mente qualunque cosa fatta il dì.
Solea dire Crates, quello antiquo e famosissimo filosofo, se a lui fusse licito, salirebbe in sul più alto luogo della terra e griderebbe: «O cittadini stolti, dove ruinate voi? Seguite voi con tante fatiche, con tanta sollecitudine, con tante innumerabili arte e infinito afanno questo vostro coadunare ricchezze, e di quelli a cui avete e le volete lasciare non vi curate, non ne avete pensiero alcuno né diligenza?».
E se i padri da sé non sono atti, o per altri maggior faccendi (se alcuna n'è maggiore che avere cura de' figliuoli) saranno troppo occupati, abbino ivi persona dalla quale e' figliuoli possano imparare dire e fare le cose lodate bene e prudentemente, come diceano di Pelleo, el quale ad Achille suo aveva dato in compagnia quello Fenix prudentissimo ed eloquentissimo, a ciò che da questo el figliuol suo Achilles imparasse essere buono oratore di parole e buono fattore delle cose;
Marco Tullio Cicerone, quel nostro principe degli oratori, fu dal suo padre dato a Quinto Muzio Scevola iurisconsulto, che mai gli si partisse dal lato. Prudente padre. Voleva che 'l figliuolo fusse appresso di chi lo potea rendere dotto ed erudito molto più che lui forse non potea.
Catone, quel buono antiquo, non si vergognava, né gli pareva fatica insegnare al figliuolo, oltre alle lettere, notare, schermire, e simili tutte destrezze militari e civili, e stimava in sé officio de' padri insegnare a' figliuoli tutte le virtù qual fusse degno sapere a liberi uomini, né gli pareva giustamente da chiamare libero alcuno in chi si disiderassi virtù alcuna; però di tutte volle a' figliuoli non altri che lui stesso ne fusse instruttore, né gli parse da preporsi alcuno in simile opera, né stimava si trovasse chi dovesse essere nelle cose sue più che lui stesso sollicito, né giudicava e' figliuoli con quello amore imparassino da altri quanto e' faceano dal proprio padre.
E vogliono e' fanciulli essere corretti con modo e ragione, e anco talora con severità. Non vi si acanire però suso, come alcuni rotti e furiosi padri fanno; ma lodo io gastigarli sanza ira, senza passione d'animo, fare come si dice fece Archita, quel tarentino el quale disse: «Se io non fussi crucciato, io te ne pagherei». Savio detto. Non gli parea da pigliarne punizione in altrui, se prima non deponeva in sé la sua ira.
E se a' padri duole quella cura di correggere e gastigare e' figliuoli, facciano come diceva Simonides poeta ad Ierone apresso Senofonte: «Le cose grate a' figliuoli facciangli loro, e le ingrate lascinle fare ad altri; onde sia benivolenza prendansela, onde nasca odio deferìscallo ad altri».
E' vizii si fanno chiaro conoscere, e sono di natura che sempre fanno come solea dire Vespasiano Cesare: «La volpe muta il pelo ma nonne il colore».
Però lodava io stare desto e preveduto, e non aspettare che 'l vizio si fermi all'animo de' giovani. E in questo si vuole seguire il consiglio qual si dice diede Annibal ad Antioco re di Siria. Disseli ch'e' Romani non si potevano vincere più facile se non in Italia colle medesime armi e terre latine.
Demostene oratore rispuose a quella meretrice che in premio domandava diecimilia denari: «Io non compero tanto il pentirmi». Così ogni vizio e ogni lascivia, ogni cosa fatta e detta senza ragione e modestia lascia l'animo pieno di pentimento.
E come diceva Archita tarentino filosofo, niuna pestilenza si truova più capitale che la voluttà. Questa in sé conduce e' tradimenti inverso la patria, produce eversione della repubblica; de qui sono e' colloqui colli inimici.
Truovasi di Domiziano Cesare che fu sì perito dell'arco che, tenendo uno fanciullo per segno la mano aperta, costui faceva saettando passare lo strale fra tutti gl'intervalli di que' diti.
E solevano e' suppremi principi molto usare la palla, e fra gli altri Gaio Cesare molto in questo uno degnissimo giuoco si dilettò, del quale scrivono quella piacevolezza, che avendo con Lucio Cecilio alla palla perduto cento, davane se non cinquanta. Adunque disseli Cecilio: «Che mi daresti tu, se io con una sola mano avessi giucato, quando io mi sono adoperato con due, e tu solo a una satisfai?».
Ancora e Publio Muzio, e Ottaviano Cesare, e Dionisio re di Siracusa, e molti altri de' quali sarebbe lungo recitare nobilissimi uomini e principi usoro colla palla essercitarsi.
Soleano gli antichi, per consuefare la gioventù a questi militari essercizii, porre que' giuochi troiani quali bellissimi nelle Eneida discrive Virgilio.
Fonte classica:
Virgilio, Eneide
E trovossi tra' principi romani miracolosi cavalcatori. Cesare, si dice, quanto poteva forte correva uno cavallo tenendo le mani drieto relegate.
Pompeo in età d'anni sessantadue, benché el cavallo quanto potea fortissimo corresse, lanciava dardi, nudava e riponeva la spada.
Se la sollecitudine d'uno mercennario insegna a una bestia far cose umane, a uno corvo favellare, come fu quello el quale in Roma disse: «Kere Cesar»; e perché Cesare qui rispose: «A me stanno in casa molti salutatori», di nuovo ridisse: «Operam perdidi»;...
Scrive Columella, s'io ben mi ricordo, che uno chiamato Papirio veterense, avendo alla prima delle tre sue figliuole dato in dota el terzo d'un suo campo avignato, con tanta diligenza governava e' due restati terzi che ne traea quel medesimo frutto qual solea trarre di tutto el campo. Dipoi, ancora sopragiunto el tempo, maritò l'altra seconda sua figliuola, e dotolla della metà di questo campo a lui doppo la prima dota rimaso. E, Dio buono, quanto può la cura e la diligenza! Quanto in ogni cosa vale così essere sollecito! Niuna cosa sarà tanto ardua e laboriosa che l'assiduità non la convinca. Questo Papirio veterense con assidua cura e sollecita diligenza fece che questa terza parte di tutto il campo, quale doppo la seconda dota restò, a sé testé quanto prima tutto lo 'ntero campo rendea.
Le fortune di questo mondo son elle sì piccole o sì rare che noi possiamo de' casi avversi non dubitare? El figliuolo a Persio re di Macedonia non fu egli veduto in Roma sudare tutto tinto alla fabbrica, e così mercennario, delle proprie sue fatiche e a grande stento, a tutte le sue necessitati satisfacere?
Quasi, Battista, come se a te non stessi a mente la sentenza del tuo Marco Cicerone, el quale tu suoli tanto lodare e amare, che giudica nessuna cosa essere più flessibile e duttibile quanto la orazione.
Alcibiade, uomo apresso gli antichi e oggi in tutte le storie famosissimo e celebratissimo, tutto avea datosi allo amare, e nel suo scudo militando portava dipinto, non qual solevano i suoi antichi, ma nuova insegna, Cupidine e sua faretra e arco.
Crisippo, dottissimo filosofo, in Atene consacrò l'immagine dello Amore, e collocolla in quel santissimo seggio, unico quasi nido di tutti i filosafi, dove si nutrirono e crebbono tutte le buone e santissime arti e discipline a bene e onesto vivere, luogo chiamato Accademia.
Scrivesi d'Antioco re di Siria, uomo per la grande età e per molto imperio gravissimo e pieno di maestà, che nell'ultima sua vecchiezza occupato d'amore si perdé amando la figliuola vergine di Neottolemo.
E di Tolomeo re di Egitto ancora si dice, benché glorioso fusse, e quanto in uno principe si richiede altiero, pure percosso da amore cadde in amare Agatocle vulgare meretrice.
Rammentami fra gli antichi di Pompeio Massimo, quello uno uomo in Italia e in tutte le province celebratissimo cittadino, per cui fu la calamità farsalica e dolorosa sparsione di sangue civile. Costui, nell'altre cose solertissimo e diligentissimo, suggetto d'amore si ridusse in solitudine in villa fra gli orti e selve, ove ogni altra cosa, ogni concorso e salutazione di molti nobilissimi quali in gran copia teneva amici, ogni amministrazione delle cose pubblice e prestantissime a lui era minore che amando vivere con quella una sola sua carissima Iulia. Non fu certo, non fu poca opera allo amore tenere in solitudine quello animo amplissimo e immenso, a cui non parse troppo certare armato per ottenere lo 'mperio sopra tutti li principi.
Ma pure, non so come, non raro si truova a chi più piace uno strano amante che il proprio marito. E più si recita che fu apresso el fiume Ganges quella famosissima nelle province orientali reina, quale, se ben mi ramenta, Curzio storico ne' gesti d'Allessandro racconta ch'ella amò un vilissimo barbiere, e per rendere l'amante suo ornatissimo e fortunatissimo sofferse uccidere el vero prima suo marito.
Fonte classica:
[Quinto] Curzio
Leggesi di Catelina quanto riferisce Sallustio storico, che amando Aurelia Orestilla uccise il suo proprio figliuolo per congiugnersela in sposa.
E di qui mi pare sia quello antico detto del sapientissimo Catone, el quale, stimo io, niuno dubita essere verissimo, quanto e' diceva che l'animo dello amante si riposa in altrui seno.
Ma guarda se così convenga, come diceva Cherea apresso Terenzio..., subito nasciamo vecchi.
Aristippo filosafo, maestro di quelli nominati Cirenaici filosofi, si legge, come sai, amava una meretrice chiamata Laide, ma diceva essere l'amor suo differenziato dagli altri, imperoché lui aveva Laide, e Laide avea gli altri amanti.
Metrodoro, quell'altro filosafo..., senza onestare l'amore suo con iscusa alcuna, apertamente amava Leonzia meretrice, alla quale ancora quello Epicureo notissimo filosofo soleva scrivere sue lettere amatorie.
E quel tuo Pompeio così affezionato, non prepose egli pure sempre l'amistà? Quella Flora bellissima, ramèntati, la quale formosissima fu nel tempio di Castore e Polluce come cosa venustissima e divina dipinta, benché di lei fusse Pompeio acceso, pur patì che Geminio la conoscesse. Volle in quel modo satisfare al desiderio dell'amico più molto che nel veemente suo amore a sé stessi.
E ramentami quella storia come a Roma si trovò quella madre in sulla porta alle mura iscontrando il figliuol suo, qual prima udiva fosse con molti altri a Transimene morto in quel publico e doloroso ricevuto conflitto, tanta vedendolo salvo ne prese letizia che ogni suo spirito per gaudio essalò e perissi.
né qui acade lodarti l'amicizia, la quale non si potrebbe lodare a mezzo, e della quale sempre giudicai come diceva Catone, ottimo stoico latino filosafo, che l'amistà dura ferma più che ogni parentado.
E dove ti rammenterai di quello Sofocles antico filosafo, del quale si recita che domandato chente e' si portassi con Venere, rispuose: «Ogni altro male più tosto, dio buono, che non avere in tutto fuggito quel signore villano e furioso»
Aduciamo per testimoni quelli secento insieme con gli altri in Gallia chiamati Soldunni là ne' Comentarii di Cesare, amici a quello Diantunno, e' quali, loro costume, si profferivano e prendevano qualunque pericolo quante volte dussino dall'amico richiesti.
Fonte classica:
Comentarii di Cesare
O fortuna, quanto se' contro alla famiglia nostra irata e ostinata! Ma in questo dolore seguo in me quello approbatissimo proverbio dello Epicuro; riducomi a memoria in quanta felicità già in patria la famiglia nostra godeva quando ella si trovava grande d'uomini, copiosa d'avere, ornata di fama e autorità, possente di grazie, favore e amicizie. E così con questa felice recordazione compenso la infelicità de' tempi presenti...
Didone fenissa, poiché 'l suo Enea era da lei amante partito, fra' suoi primi lamenti non altro sopra tutto desiderava se non come ella piangendo diceva: «Oh, pure un picchino Enea qui mi giucasse!» Così, meschina abandonata amante, nel viso, ne' gesti d'un altro fanciullino Iulio a te sarebbe stato come lì primo veneno e fiamma del'ardente e mortifero tuo riceuto amore, così qui ultimo conforto de' tuoi dolori e miseria.
Del tempo ragionevole del tôrre moglie sarebbe lungo racontare tutte l'antiche opinioni. Esiodo faceva un marito in XXX anni; a Licurgo piaceva e' padri in XXXVII; a' nostri moderni pare sia utile sposo ne' XXV anni.
Diceva Mario, quel prestantissimo cittadino romano, in quella sua prima conzione al popolo romano: «Alle donne mondezza, all'uomo si conviene fatica».
tal che tra noi mi pare sia simile usanza a quella si scrive era in Tracia, che le sozze vergine con molta dota comperavano i mariti, alle belle stava certo premio secondo il giudicio de' pubblici tassatori.
E sì, è egli vero; sì, e' matrimonii non possono tutti essere com'io gli desidero, né possono tutte le mogli trovarsi simile a quella Cornelia figliuola di Metello Scipione maritata a Publio Crasso, donna formosa, litterata, perita in musica, geometria e filosofia, e quello che in donna di tanto ingegno e virtù più meritava lode, fu d'ogni superbia, d'ogni alterezza e d'ogni importunità vacua.
Ma facciasi come consigliava quel servo Birria apresso Terenzio: «Non si può quel che tu vuoi; voglia quel che tu puoi».
Lodava Catone, ottimo padre di famiglia, nelle donne molto più una antica gentilezza che una grande ricchezza.
si vuole prima sì bene fare come diceva apresso Senofonte quel buon marito a Socrate: pregare Iddio che alla tua nuova sposa dia grazia d'essere fecunda con pace e onestà della casa, molto pregarne Iddio con molta religione, però che queste sono cose troppo in una moglie necessarie, troppo misere a chi le mancano, molto lodate e felici in chi le stiano, e sono proprio dono d'Iddio.
E che più? Aremo noi a imitare quel Gaio Mazio antico amico di Gaio Cesare, el quale descrisse l'arte de' cuochi e l'arte de' pistori?
Leggesi alcuni nomi essere stati infelicissimi, come in Grecia quelle vergini quali si chiamorono Milesie, per varii modi, per suspendio, precipizio, con veneno, con ferro, tutte sé stessi furiose dierono anti tempo a morte.
Alessandro macedonico, el cui nome già era apresso tutte le nazioni celebratissimo, movendo le sue copie d'armi per convincere un certo castello, chiamato a sé un suo macedonico giovanetto a cui era simil nome Alessandro: «E tu, Alessandro», disse per incenderlo a meritare laude, «a te sta portare in te virtù pari al nome, quale hai, quanto puoi vedere, non vulgare».
E non sanza cagione e' prudentissimi nostri maggiori, quando alcuno fortissimo e amantissimo della patria, in premio e memoria delle virtù loro per incitare e' minori a seguire pari lode, da loro era nel numero degli idii ascritto, gl'imponevano nuovo e quanto potevano elegantissimo e chiarissimo nome, come e' nostri Latini a Romolo, chiamòrollo Quirino, quegli altri a Leda Nemesis, a Giunone Leucotea.
E nacque questo uso e licenza non prima in Roma che anni dugento e trenta doppo la rapina fatta delle donne sabine, tanto avea voluto Romulo ne' matrimonii essere integrità e pudicizia. E non però sanza cagione Spurio Corvinio, overo Corpilio, fu el primo el quale repudiò la sua moglie perché essa era infecunda e sterile. Parsegli non disonesto lasciar questa, disiderando altronde avere figliuoli.
facevano come oggi alcuni, e come a que' tempi sì degli altri assai, sì anche el figliuolo d'Africano superiore, quale adottò el figliuolo nato di Paulo Emilio. E pare a me questa utilissima, licita consuetudine, adottarsi degli altri già nati figliuoli, ove a te quegli nascere non possano.
Né mi può non dispiacere la sentenza dello Epicuro filosofo, el quale riputa in Dio somma felicità el far nulla.
Manco a me dispiace la sentenza d'Anassagora filosafo, el quale domandato per che cagione fusse da Dio procreato l'uomo, rispose: «Ci ha produtto per essere contemplatore del cielo, delle stelle, e del sole, e di tutte quelle sue maravigliose opere divine».
Dicevano gli Stoici l'uomo essere dalla natura constituito nel mondo speculatore e operatore delle cose.
Crisippo giudicava ogni cosa essere nata per servire all'uomo, e l'uomo per conservare compagnia e amistà fra gli uomini.
Della quale sentenza Protagora, quell'altro antico filosafo, fu, quanto ad alcuni suol parere, non alieno, el quale affirmava l'uomo essere modo e misura di tutte le cose.
Platone scrivendo ad Archita tarentino dice gli uomini essere nati per cagione degli uomini, e parte di noi si debbe alla patria, parte a' parenti, parte agli amici.
Pertanto troppo mi piace la sentenza d'Aristotile, el quale constituì l'uomo essere quasi come un mortale iddio felice, intendendo e faccendo con ragione e virtù.
Interviene che alcuna volta si mutano le compressioni, le fortune, e' tempi e l'altre cose. Allora si faccia come diceva Talete filosofo: «Adàttati al tempo».
...un lungo corso simile a quello discrive Virgilio fatto ne' giuochi d'Enea appresso di Cicilia...
Non sia sottoposto l'animo ad alcuno errore, non si sottometta ad alcuna disonestà per avanzare auro, fugga ogni biasimo per non perdere fama, non perda virtù per acquistare tesauro, imperocché, come soleva dire Platone, quel nobilissimo principe de' filosofi: «Tutto l'oro nascoso sotto terra, tutto l'oro serbato sopra terra, tutto l'avere del mondo non è da comparare con la virtù».
- Però dice, Battista, – ramèntati quello terenziano Demifo, – ciascuno, quando le cose gli secondano, allora molto gli è mestiero fra sé pensare in che modo, accadendo, e' sofferisca l'avversa signoria della fortuna, pericoli, danni, essilii.
E forse questi segni e applaudimenti d'amicizia, co' quali i principi allettano e ablandiscono e' suoi ricchi e fortunati, sono solo per adoperarli, come scrive Suetonio di Vespasiano Cesare, quale disponea in luogo d'amici, a' suoi credo porti e doane e in simili magistrati, uomini rapaci e industriosi al guadagno, e nati quasi solo per congregare pecunia; ché dove questi poi erano come la spongia bene inzuppata e pregna, ben gravi di rapina, lui eccitatoli contra, e uditone più e più accuse e doglienze delli offesi, gli premea, e rendeali arridi e poveri con tôrli e' beni loro paterni e questi così sopra accumulati. E solea per questo Vespasiano chiamarli sue per spungie. Così ultimo sentiano sé essere non amici, dove rimanevano vacui e arridi d'ogni copia e sugo di sue fortune, pieni d'odio e malivolenza.
Scrive Columella tanta essere inimicizia tra l'olivo e il quercio, che ancora tagliata la quercia, le sole sue sotto terra radici estingueno qualunque ivi presso fusse piantato olivo.
Pomponio Mela racconta alle fini di Egitto presso quella gente detta Esfoge, come da innata e naturale inimicizia convenirvi numero d'uccegli chiamati ibides ad inimicare e combattere contra la moltitudine de' serpenti quale ivi inabita.
Fonte classica:
Pomponio Mela
El cavallo, dice Erodoto, naturale sua inimicizia, tanto teme il cammello, che non tanto vederlo fugge, ma odorarlo el perturba.
E così contrario racconta Plinio troppo la ruta essere amicissima al fico, poiché insieme curano el veneno, e sotto el fico piantata escresce lietissima, e più che in qual sia altrove luogo si fa amplia e verzosa.
E Cicerone scrisse trovarsi animali, quali insieme vivono amicissimi, come fra l'ostree quello chiamato pinea, pesce amplo, quale apre e quasi come pareti tende que' due suoi scorzi, dove convenuta copia di pisciculi, la squilla, piccino animale, la eccita ch'ella inchiuda la congregata preda, onde così ambedue si pascano.
Scrive Cicerone che Dionisio re di Siragusa studioso di giuocare a palla, giucando avea dato a serbare la veste sua a un garzonetto da sé amato, e de' suoi amici uno giucando disse: «E sì, Dionisio, a costui che racomandasti? La vita tua?» Vide Dionisio a quelle parole el fanciullo surridere, e per questo comandò ambo que' due fussero uccisi, quali l'uno, quanto e' giudicava, diede via a poterlo venenare, e l'altro ridendo parse asssentirli.
Anzi a me piace la sentenza di Cornelio Celso, quale più loda quel medico per cui opera si restituisca la buona sanità, e restituita si conservi, che di colui per cui sapienza sia noto se'l cibo, come dicea Ippocrate, nello stomaco si consumi da innato alcuno in noi quasi ardore naturale, o se, come Plistonico discipulo di Parassagora affermava, si putrefà, o se, come ad Asclepiade parea, così si traduce indigesto e crudo.
Fonte classica:
Cornelio Celso
che ancora troverrò io forse più numero d'amici, quando Pitagora fiosafo m'arà persuaso che degli amici tutte le cose debbano fra chi insieme s'ama essere comuni?
che credo quelli me ameranno con più fede e più constanza, quando Zenone, quell'altro, o Arestotele filosofo m'arà persuaso che l'amico, come domandato Zenone rispuose, sia quasi un altro sé stessi, o sia, come rispuose Aristotile, l'amicizia ha due corpi, una anima?
Né Platone ancora mi satisfa dicendo che alcune amicizie sono da essa natura quasi constituite, alcune unite con semplice e aperta coniunzione ed equalità d'animo, alcune con minor vinculo collegate e solo con domestichezza, conversazione e convivere, uso d'amicizia, contenute; quali tre e' nomina la prima naturale, l'altra equale, l'ultima ditta da quella antica consuetudine ch'e' cittadini di qui divertivano a casa quelli là, e' quali si riducono simili qui ospiti apresso di costoro, e per questo s'appella ospitale.
temo loro interverrebbe come a quel Formio peripatetico filosofo, al quale Annibal, udita la sua lunghissima orazione dove e' disputava de re militari, rispose avere veduti assai, ma non alcuno pazzo maggior che costui, el quale dicendo forse stimasse potere in campo e contro all'inimici quanto in scuola ozioso disputando.
Quanto si truova raro che quella parità ed equalità d'animo fra gli amici risponda a quel antico detto del nostro poeta latino Ennio: l'amico certo si possa conoscere ne' casi incerti!
Olimpia, madre d'Allessandro macedone, solea scriverli fusse studioso d'acquistarsi amicizia con doni, beneficio, e con quelle cose donde egli ampliasse e di sé promulgasse laude e gloria.
Così Teseo, quello che superò el tauro maratonio, fu dalla fama e lode di Ercule mosso ad amarlo.
Temistocle, dice Plutarco, acquistò fra' suoi gran benivolenza, perché in magistrato rendendo ragione era iustissimo e severissimo.
Aulo Vitellio, quello quale doppo la morte di Silvio otenne il principato in Roma, scrive Suetonio, perché era in augurii perito, fu a Gaio imperadore amicissimo; e non meno a Claudio fu costui medesimo accettissimo, perché e' bello giucava a tavole.
A Ottaviano piacque Mecenas, perché lo provava taciturno; piacqueli Agrippa, quale vedea pazientissimo in ogni fatica.
A Catone, vedendo Valerio Flacco suo vicino in villa molto assiduo dare opera alla agricultura, di quale Catone troppo si dilettava, el prese in amicizia.
Tito Quinzio Flamminio, dicono, perché co' suoi decreti rendette libera la provincia Asia dalle molte false iscritte usure in quali ella giacea oppressa, acquistò apresso di tutti que' provinciali maravigliosa benivolenza, e tanta gli fu in teatro renduta festa e gratulazione, che per le grandissime in alto voce messe dal popolo lieto, uccegli non pochi storditi e stupefatti cadderon in mezzo della moltitudine.
IV, 958-967 La famiglia de' Fabii in Roma, non in quel tempo assai grata al popolo, quando ricevette in casa e governò a sanità gran moltitudine di feriti in quella battaglia in que' dì fatta contro gli Etruschi popoli, ove Fabio consule fu morto, per questo recuperò l'antica e buona grazia. E prima sendo el Senato in grande odio e dissension col popolo, fece decreto che si distribuisse stipendio a' cittadini romani quali ivi erano in essercito; e a questo uso si coniorono e' primi in Italia danari. Così quelli prima alienati, ora per questo dono ritornorono in grazia e pacifica amicizia.
La famiglia de' Fabii in Roma, non in quel tempo assai grata al popolo, quando ricevette in casa e governò a sanità gran moltitudine di feriti in quella battaglia in que' dì fatta contro gli Etruschi popoli, ove Fabio consule fu morto, per questo recuperò l'antica e buona grazia. E prima sendo el Senato in grande odio e dissension col popolo, fece decreto che si distribuisse stipendio a' cittadini romani quali ivi erano in essercito; e a questo uso si coniorono e' primi in Italia danari. Così quelli prima alienati, ora per questo dono ritornorono in grazia e pacifica amicizia.
Scrive Aulo Gellio che Androdoro servo d'un romano uomo nobile e consulare in Africa, fuggitosi dal suo padrone in luogo deserto, curò in quella spelonca ove e' latitava, uno lione ferito da un stecco nel pié, e per questo beneficio fra loro tanto nacque coniunzione che poi insieme vissero anni tre in summa concordia. E in merito del ricevuto beneficio el leone qualunque dì all'uomo portava parte delle prede sue, quale Androdoro a mezzo dì alla vampa del sole incocea, e così sé pascea e sostentava. Acadde che preso el lione e tradutto a Roma, all'uomo convenne altronde procacciarsi; e uscito dalla spelonca fu ripreso dallo essercito di colui a cui egli era fuggitivo servo; e dipoi, per punire la sua contumacia, fu adiudicato alle bestie, a qual morte gli sceleratissimi ivano condennati. Cosa miracolosa! ché subito veduto dal suo amico lione Androdoro, da lui fu quasi in grembo ricevuto e dall'altre fere salvato. Per quale spettaculo mosso gli animi della moltitudine, fu el servo e il lione donati a libertà, e usciti in publico, dicono, tanta era consuetudine fra la fera e l'uomo, che con sottilissimo freno Androdoro servo menava quasi al lascio el suo lione per tutti gli artefici di Roma, e diceasi: «Ecco l'uomo amico del lione, e il lione hospes dell'uomo»
Fonte classica:
Aulo Gellio
E Seneca simile scrive avere veduto tale spettaculo maraviglioso certo e incredibile.
E ancora e' buoni scrittori e Plinio mandarono a memoria come quella serpe in Egitto, usa pascersi alla tavola di quello uomo a cui uno de' suoi serpentelli morse e uccise el figliuolo, conosciuto che per colpa del suo era viziata l'amicizia, in vendicarli la ingiuria lo uccise, e sé stessi così privò del caro suo figliuolo. Né contenta a questo, poi più ebbe audacia di ritornare sotto que' tetti, dove tanto era vivuta familiare, e dove tanta er e' suoi fusse stata commessa ingratitudine.
Adunque ben conoscea divo Tito, quanto Suetonio e anche Eutropio affermano, se molto valessero e' doni ad amicizia, poiché la sera ridutto solo, si dolea quando in quel dì nulla avea o promesso o donato a chi che sia.
Fonte classica:
Svetonio, Eutropio
E dicea Platone gl'uomini quasi com'e' pesci con l'amo, così colla voluttà pigliarsi.
Scriveno che a Perseo tanto dilettò el generoso aspetto di Teseo, e a Teseo tanto fu gratissimo la presenza e bellezza di Peritou, che sola quasi questa fu prima cagione a insieme coiungergli d'amicizia.
Fu Pisistrato a Solone e a Socrate, dicono alcuni, fu el suo Alcibiade amicissimo, perché erano di forma bellissimi.
Marco Antonio acquistò amicizia non pochissima protraendo colla gioventù ragionamenti amatorii, e servendo alle passioni degli innamorati.
Silla, referisce Sallustio, fu meglio voluto dal suo essercito, poiché lo lasciava in Asia oltr'al severo costume antiquo romano essere lascivo.
alcuni, come Callicles dicea presso a Plauto poeta, staranno doppi e moltiplici, non d'ingegno solo e animo, ma in ogni risposta e atti e parole, che mal potrai conoscere a qual parte e' pervengano ad amicizia o ad inimicizia.
Né iniuria, Teofrasto, quello antiquo filosofo, in età sino anni novanta, si maravigliava che cagion così facesse e' Greci, tutti nati sotto un cielo e con ordine d'una equale disciplina e costume educati e instrutti, tanto fra loro l'uno essere all'altro dissimile.
E appresso confesserotti che ogni dissimilitudine di vita, di costumi, d'uso, d'età, di studii disturba e non permette quello qual dicea Empedocles, che simile a quello che aquaglia el latte, così con amore si concreino insieme gli animi e couniscono;
Quello famoso in istorie Timone ateniense, uomo acerbissimo e duro, volle in familiare amico, quale e' dicea piacerli, Alcibiade, giovane ardito e concitato, perché a lui parea costui, quando che sia, sarebbe a molti cittadini pestifero e calamitoso. Amò ancora Apemanto, uomo bizzarro e simile a sé.
E leggesi che, per acquistarsi la benivolenza de' popoli barbari, Alessandro vestì stola e abito barbaro.
E Marco Catone mi ramenta che, per molto darsi caro a' suoi uomini d'arme, volle in cosa niuna da loro aversi dissimile.
Ne pur solo, come dicea Zenone filosofo, sono ottima presa gli orecchi, quale interpreto io con eloquenza, o forse in prima con buona fama di noi e commendazion, molto ad acapppiarsi gli animi umani:
come dicea Cicerone al fratello suo, el volto e fronte, quali sono quasi porte dell'animo nostro e addito, mai saranno a persona non aperte, e quasi publice e liberali.
Tu con ciascuno di questi ramenterei immitassi Alcibiade, quale in Sparta, terra data alla parsimonia, essercitata in fatiche, cupidissima di gloria, era massaro, ruvido, inculto; in Ionia era delicato, vezzoso; in Tracia con quelli s'adattava a bevazzare ed empiersi di diletto; e tanto sapea sé stessi fingere a quello acadea in taglio, che sendo in Persia, altrui patria, pomposa, curiosa d'ostentazioni, vinse el re Tisaferne de elazione d'animo e di magnificenza.
Bruto e Cassio, coniurati a vendicare la libertà della patria sua, quale Gaio Cesare avea con arme occupata, proponendo in mezzo forse simili disputazioni, se per beneficare el popolo sia lodato porre in pericolo el senato, o se la discordia civile fusse a' cittadini meno che'l tiranno grave, argomentando compresero quanto a Statilio epicurro e con Favonio imitatore di Catone potessero poco communicare, o commettersi a loro constanza e fede.
Onde poi conosciuta la natura e modi di quelli quali tu proponi accoglierti e accrescerti ad amicizia, sta luogo usare la industria di Catelina, uomo in questo certo prudentissimo e ottimo artefice, quale a questo donava lo sparviere, a quello l'arme, a quest'altro el ragazzo, e a tutti quello di che in prima si dilettasse.
Ma basti qui a noi tanto asseguire quanto Valerio Marziale antiquo poeta te ammonisce, suo epigramma: / S'ancora forse dai te a farti amare, / poich'io te vedo atorniato d'amici, / cedimi, Ruffo, se t'avanza, un luogo; / e non mi recusar perch'io sia nuovo, / ché si fur tutti i tuoi antiqui amici. / Tu tanto guarda chi ti s'apparecchia, se potrà farsi a te buon vecchio amico.
E quelli antiqui populi di Scizia in quelle loro col sangue suo iurate amicizie, che, come ti ramenta, uomini bellicosissimi per più essere in battaglia forti contra e' nemici quasi necessitati a fermarsi ottima amicizia, a sé intaccavano el dito; e que' due o tre al più, quali in quel sangue intinta la punta della spada e insieme beùtone, prometteano mai l'uno in pericolo o fortuna alcuna all'altro venir meno, sai appresso delli antiqui scrittori s'appruovano, dove e' biasimavano e riputavano simile alle publice meretrici chi con più coppie di simili coniurati sé patteggiassi.
E ancora piace Aristotele e sua sentenza: come non atto la nostra casa riceverebbe mille e mille uomini, e altrove dieci o venti uomini non adempirebbono populo a una città, così in amicizia dicono bisognarvi certo e determinato numero d'amici.
Fonte classica:
Aristotele
Gobria assirio presso Senofonte, narrando a Ciro re de' Persi che cagion sé tenesse fuori della sua patria, espose non potere soffrire in regno chi gli avea ucciso el suo carissimo figliuolo; poter sì, ma non volere esserli in altro grave, sendo amicissimo stato del padre.
Cicerone molto accusava in senatu M. Antonio che contro ogni officio di civilità, ora inimico avesse monstro lettere familiari a sé da Cicerone scritte, né convenirsi, ricevuto alcuna offensione, divulgare e' passati colloquii di chi t'era amico.
Molti in essercito di Gaio Marzio Rutiliano, scrive Livio, aveano consigliatosi insieme surripere Capua, terra fruttifera e abundantissima. Adunque con modo Rutilio dissimulando nulla di ciò esserli sospizione, scelto or uno ora doppo un altro de' principi di tanta turbazione, in diverse parti a varii simulati bisogni gli trasse da sé e transmisse altrove, quali non, dubito, in un sieme senza grave discidio e pericolo arebbe esterminatoli.
E dicono non meno essere da non tenere una fera legata e pasciuta in casa, che lasciarla ire affamata per teatri; in qual sentenza scrivono fu Filippo macedon padre d'Allessandro, el qual da' suoi amici confortato mandasse da sé un de' suoi sparlatore e maledico, negò esser el meglio così darli cagione di scorrer maldicendo dove e' non fusse conosciuto.
O quale non stolto in quel giuoco lupercal antico, in quale, dice Plutarco, nobili giovani e posti in magistrato, nudi correndo faceano con ferze aprirsi via dalla moltitudine, restasse di certare correndo per acquietar quel cane quale el perseguita abbaiando?
Pirro, re Epirotarum, domandò alcuni giovani se così fusse che bevendo insieme avessero detrattoli molto e biasimatolo, com'egli udiva. Risposero: «E quanto assai; e se più avessimo beuto, molto più saremmo stati intemperanti». Credo rise.
Filippo, padre d'Alessandro macedone, disse agli oratori ateniensi: «Arovvi grazia che per vostro dire male di me, rendete me di dì in dì migliore, però ch'io mi sforzerò con vita e con parole farvi bugiardi».
E Alessandro suo figliuolo rispose a chi gli acusava un maledico: «Questo è proprio a un re, che faccendo bene egli oda male».
Ciro re de' Persi el giovane ferì a morte con un dardo Menete suo condutto milite, perché molte parole brutte dicea in Alessandro contro cui erano armati: «Io te», disse, «nutrisco perché combatta col ferro contro Alessandro, non co' maleditti».
E adducono quella antiqua sentenza di Zenone filosofo: «S'io non curo e' mal'detti di me, né io ancora sentirò le lode».
E muoveli Chilone antiquo filosofo, quello el quale per letizia, ché vide el suo figliuolo in Olimpide vittore e coronato, finì sua vita: domandato, rispuose essere difficilissimo tenere e' secreti, ben usare l'ozio e potere tolerare le iniurie.
Onde non biasimano Coriolano, el quale affermava la austerità e pertinacia, soprastare a tutti, sottomettersi a niuno, proprio essere d'animo grande e officio di fortitudine.
E Alcibiade non riprendeno, el quale dannato capitale dalla patria, e per quello fuggendo ai Lacedemoni, disse fare, quanto poi con armi fece, sentirli sé essere in vita.
E confermono la sentenza di Publio poeta: «Soffrendo l'antica iniuria s'invita a nuova iniuria».
Fonte classica:
Publio poeta
E certo iudicano doversi contra l'iniuria fortitudine, e piacegli a suo proposito addurre Eraclito, ove disse: «L'iniurie si debbano spegnere».
E lodano Agatocle, el quale, vinta con arme e soggiogata a sé la terra di que' cittadini, vendé molti vendicandosi delle villane parole aveano combattendo dettoli. E domandatolo: «O orciolaio, – fu el padre d'Agatocle, come sai, maestro di vasi: si chiamavano figuli, – onde satisfara' tu a que' tuoi soldati?», rispuose: «vintovi». E così adunque vendendoli disse: «Se voi non sarete per l'avenire modesti, io v'acuserò a' vostri padroni».
Isocrate, scrivendo a Demonico, affermava doversi né all'amico ceder di benivolenza, né al nemico d'odio.
A Socrate, uomo ottimo e santissimo, fu inimico Aristofon poeta, el quale scrisse in lui sua commedia.
Fonte classica:
Aristofane
Platone filosofo e Senofonte oratore, Eschines amico di Socrate e Aristippo molto insieme si inimicorono.
Catone, ottimo cittadino e religiosissimo custode della Repubblica, fu da' suoi inimici non meno che in cinquanta iudiici capitali accusato: del quale si legge che in età d'anni ottanta in iudizio difendendosi disse cosa esser difficile a lui, ch'era vivuto fra altri, ora con nuovi cittadini convenirli disputare della vita sua.
E non pochi appresso di Aulo Gellio e dagli altri scrittori si raccontano subito tornati da inimicizia in non sperata amicizia; qual cose fanno che forse alcuni dubitano queste veementissime affezioni nascere non da nostra alcuna opera, ma quasi da qualche fato e forza de' cieli.
Fonte classica:
Aulo Gellio
Raccontono che da prima puerizia Aristide, quasi instigato da natura, prese odio capitale contro a Temistocle figliuolo di Nicocle.
E Arato sicionio da natura con grande opera e studio inimicava ciascun tiranno, e quasi indutto da' fati, come el sacerdote, trovato in la vittima due insieme in una rete ravolti fieli, gli predisse ancora sarebbe con un suo capitale inimico molto coniunto in benivolenza, così che poi fu ad Antigone tiranno tanto amico che, riduttosi a mente el pronostico del sacerdote, quando poi sotto un panno erano pel freddo lui e Antigono coperti sorridendo gli racontò la istoria, e fulli gratissimo così piacesse agli dii.
E legesi che sanza altri mezzano, quasi destinato, e ordine da' cieli, Affricano e Gracco, Lepido e Flacco inimicissimi tornorono in grazia.
Pitagora e gli altri assai filosofi però pur negavan prudente alcuno dover mai incendersi ad ira, né contro a libero, né contro a qual si sia servo.
Potrei adur qui Archita tarentino, Platone e gli altri notissimi e nelle istorie lodati, che nulla volsero con ira perseguire.
«Da ogni parte s'apre luogo a vendicarsi», disse Quinto Catulo a Gaio Pisone, «purché tu aspetti el tempo».
Onde non posso non biasimare coloro, e' quali benché iusto proseguitino sua vendetta, sono in parole minacciando concitati, e in fatti precipitosi e troppo inconsiderati, simili a quel proverbio antiquo de' Battriani, quale scriveno Corabes medo in convito a Dario disse: «El can timido più che 'l mordace abaia»
e dicano come Coriolano, el quale ferito combattendo, e pregato dagli amici curasse la sua salute e tornasse al sicuro, rispuose: «chi vince non s'afatica»;
e più ancora piaccia la risposta de' Romani fatta agl'imbasciatori de' Volsci: «voi primi corresti in arme, noi pertanto staremo ultimi a deporle»;
Pirrus, perduto in vittoria molti suoi amici, disse: «Se un'altra volta vinceremo e' Romani, certo tutti periremo».
Onde e chi sarà che non biasimi quel Buten prefetto assediato da Cimone in Tracia, quale per mantenere sua durezza d'animo infiammò la terra, e fra le fiamme con molti nobilissimi prìncipi di Persia perì?
Non racconto que' Talani, quali, dice Sallustio, oppressi da Metello, sé e sue cose perderono ardendo.
Simile e' Numantini da Scipione,
e appresso le radici dell'Alpi que' famosi Galli da Mario superati,
e altrove quelle femmine delli Ambroniti, quale percossero e' figliuoli suoi su' sassi, e sopra loro sè diedero a morte;
e que' compagni di Iosuo Ierosolimitani rinchiusi in quella spilunca, quali assortiti l'uno uccise l'altro;
e que' Litii vinti da Bruto, ancora contumaci perseguiti e ossessi apresso Sanzio, quali, poiché essi ebbero incese le macchine atorno de' Romani e videro le fiamme portate dal vento scorrer ardendo più e più tetti sino in mezzo alla terra loro, quasi lieti di tanta sua calamità, grandi e piccoli, maschi e femmine e ogni età, accorsero furiosi a repellere e' Romani, quali piatosi sé porgeano a spegnere tanto e sì diffuso incendio. E tanta fu, dicono, in que' Litii ostinazione e pervicacità, che con sue mani per tutto altrove trasferirono el fuoco, e piacque a tutti insieme colla patria sua cadere perdendo in cenere.
Alessandro, figliuolo di Filippo re di Macedonia, quando el padre el confortava certasse in que' giuochi chiamati Olimpi, negò ubidirlo, però che non avea pari a sé con chi essercitarsi e contendere.
Lodasi Catone, come in tutta la sua vita e gesti, così in questo prudente e virile, quale verso di Scipione a lui per età minore, da chi esso era non ben voluto, si portò non più difficile che quanto si dovea verso un giovane e men maturo.
E certo così a me pare, quanto dicea Cicerone, proprio officio del magnanimo esser placabile, e nulla duro né ostinato.
E come dice Cicerone, quasi da natura tutti siamo proclivi a occurrere e propulsare e' periculi.
E chi non odiasse quelle gente crudelissime di là da' Nomadi, quali beono el sangue del suo ferito inimico, e que' ditti Zeloni, quali ne' teschi de' suoi morti inimici si pasceano,
e quelli Scite, de' quali scrive Erodoto che de' dieci presi inimici immolavano uno in luogo di pecore, e solo chi portava el capo dell'inimico era participe della preda, faceano della pelle degl'inimici faretre da saette e simili?
Marco Tullio, uccisi que' coniuratori di Catelina, rinunziandolo al popolo disse: «vissero».
Fotion non volse per la morte di Filippo suo inimico dimonstrarsi lieto; e agli amici quali el confortavano così ne facesse agli dii sacrificio, rispuose nulla doversi a un re allegrarsi delle calamità de' mortali.
come disse Brassidas morto nel dito, ancora el topo e qualunque benché minimo sia animale sé difende.
E come solea dire quello Bias, uno de' sette antiqui detti Savi Filosofi (quale ancora dicono fu sentenza di Publio poeta), così ameremo come se quando che sia aremo essere non amici, così qui noi reggeremo le inimicizie, come se in tempo aremo da essere insieme non odiosi e infesti.
Fonte classica:
Publio poeta
Non sa' tu che due furono sempre ottime e gloriosissime vittorie contro ogni inimicizia, l'una quanto Diogenes, domandato in che patto molto potesse essere grave al suo inimico, rispuose: «vivendo onestissimo e adoperandoti in cose lodatissime».
E sia quanto vogliono prudente sentenza quella di Tales milesio, quale, domandato qual cosa facesse essere lieve la gravezza delle cose in vita moleste, rispose: «se vedremo l'inimico peggio afflitto che noi»;
Scrivesi poi che pel tedio del navicare furono incese le navi de' profughi Troiani da quella femina chiamata Roma; onde la terra poi, dicono alcuni, fu da loro ivi non lungi edificata, detta Roma. Le donne con domandar perdonanza e con umili parole pacificorono e' loro mariti verso sé troppo di iusta ira accesi, e apparecchiati a gastigarle.
Ciro, dice Senofonte, chiamato da parte Ciassare, e avuto colloquio, e discusso e purgato le cagioni dell'odio, indi uscirono amicissimi.
Marco Marcello con facilità e benignità seppe riconciliarsi e' suoi accusatori e farseli fedeli amici.
Alcibiades con lusinghe e blandizie aumiliò e rapacificò Tisaferne, quale per troppa avutoli invidia era partito da' Lacedemonesi inimico del nome de' Greci.
E quanto racconta Iustino, bene intesero quelli Eracliensi, quali con benificio e doni seppero d'inimico a sé rendere amico Lammaco e suo essercito; estimorono ottimo satisfare a' ricevuti danni in guerra, se chi gli era grave, ora gli sia fatto amico.
Dicea Zenone e' lupini essere durissimi e amarissimi, ma per stare in acqua si mollificano e adolciscono.
Ma ramentami quanto scrive Plutarco: Dionisio simulò essere tornato in grazia con Dione, e così allettò Dione solo in la rocca, e monstrolli quella epistola sua scritta agli Ateniesi, e comandò a' nocchieri esponessero Dione in Italia. Onde non forse male dicono: «di inimico riconciliato non ti fidare»;
Lodava Virgilio el suo Mecenate: «Te che sì grande ogni cosa puoi...»; mai uomo s'avide nuocere li potessi.
Platone filosofo scrive a Dione siracusano: «E siati in mente adunque, o Dione, che molto la benivolenza alle cose arai da fare giova; superbia vero induce solitudine d'amici».
E certo chi sia superbo, costui sarà non iocundo a' suoi con chi e' viva, e meno agli strani. E per questo quanto dicea Aristotele: «Poiché noi raro amiamo chi a noi non è iocundo, sarà el superbo come iniocundo, così meno amato».
Fonte classica:
Aristotele
Sallustio scrive che Iensalo prese a sdegno gravissimo che 'l fratello suo Aterbal li si pose superbo in sedere a sé di sopra.
Gracco, tornato da Cartagine, nuova tolse casa presso al mercato tra' poveri artigiani, per monstrarsi volere essere non superiore agli altri, né sé stessi estorsi in fasto e superbia.
Scrivea Isocrate a Demonico che l'inizio della benivolenza era lodare, della malivolenza biasimare.
E quanto Lelio appresso di Cicerone dicea sé in cosa alcuna mai essere stato grave a Scipione, mai da lui avere ricevuto cosa ingrata, così noi molto fuggiremo essere non iocundissimi e accettissimi a chi vorremo esserci affetti di benivolenza.
E come diceano sapea Alcibiade, così noi imitaremo el camaleonte, animale quale dicono a ogni prossimo colore sé varia ad assimigliarlo.
Così noi co' tristi saremo severi, co' iocundi festivi, co' liberali magnifici; e quanto dicea Cicerone al fratello, la fronte, el viso, le parole e tutti e' costumi acomodaremo a' loro appetiti.
E dicea Laberio poeta che in via dove pel tedio del caminare quasi ciascun sta tristo e grave, un iocundo compagno era come veiculo e sollevamento del tedio.
Fonte classica:
Laberio poeta
Catone solea dire la mensa e convito, dove più s'apregiava e' ragionamenti e festività tra gli amici che le vivande, essere procreatrice della amicizia.
E dicea Paulo Emilio el convito bene aparecchiato essere opera d'animo grande, non dissimile a chi bene ordini lo essercito, ma venirne frutto dissimile però che indi stai temuto, qui t'acresci e conservi benivolenza.
E niuna cosa tanto par propria agli amici, dice Aristotele, quanto insieme vivere.
Fonte classica:
Aristotele
In tutte le coniunzioni, dicea Tullio a Decio Bruto, molto fa quali siano e' primi additi, e per cui comendazioni quasi le porti della amicizia furono aperte.
Ciro, quanto scrive Senofonte, solea per Sacca suo domestico sempre prima certificarsi se Astiage suo avolo forse fosse lieto o tristo, per sceglier tempo d'andarlo a salutare.
Isocrate scrivendo a Demonico lo amoniva quanto d'ogni cosa era sazietà, e pertanto raro convenisse gli amici.
Scrive Suetonio che Cesar, invitato dall'amico, partendosi con troppa masserizia trattato in cena, disse: «Non mi credea tanto esserti amico».
Già che non si nega officio dell'amicizia servire a' comuni commodi, ove così sia che degli amici qualunque cosa debba essere comune, e appruovasi la sentenza dello Epicuro filosofo, l'amicizia essere lodato consorzio di volontà.
Né ci dimenticherà la sentenza di Demetrio figliuolo di Fanostrate, quale dicea: «El vero amico sarà quello che alla prospera tua fortuna non verrà se non chiamato, ma correrà sé stessi proferendo a ogni tua avversità».
E così Chilon filosofo volea l'amico più pronto a comportare teco l'onte della fortuna, che a godere in tua felicità.
E se pure acade che da te chi tu ami chieggia cosa non onestissima, e dica quanto dicea Blosio amico a Gracco, per servire a' desiderii dello amico doversi in cosa niuna non ottemperarli,
dicea Aristotele, confutando certe oppinioni di Platone suo maestro, sé amare l'amico, ma prima la verità.
Fonte classica:
Aristotele
All'amico che domandò dicesse falso testimonio, rispuose Pericle: «Ubidirotti persino alla ara», luogo ove era da prestare el giuramento.
E Chilone filosofo, quale per salute dello amico suo avea dato non giusto consiglio, persino all'ultimo suo dì consolendosi, dubitò quanto fusse da lodare o biasimare.
Antigono, per sogno apparsoli vedere Mitridato mietere biave d'oro, per questo con Demetrio suo figliuolo, datogli giuramento comunicò volerlo uccidere. Demetrio chiamò Mitridato e ragionando d'altre cose, con una bacchetta scrisse in sul lito dove passeggiavano, «fuggi». Inteselo e consigliossi.
Acaggiono ancora fra noi e chi dice amarci, che stimano quella e quell'altra dignità più troppo che la nostra benivolenza, quali se così meritano, faremo come Pedareto lacedemoniese, quale, avuta repulsa domandando el magistrato, nulla atristito tornava, e disse troppo esser lieto poiché in la patria sua vedea essere tanto sopra sé numero di virtuosi cittadini a' quali si fidi la repubblica.
E assentiremo a Crasso, quale dicea con animo non turbato soffrire altri a sé essere in quelle cose superiore quale la fortuna possa tôrli, ma in quelle quali per nostra industria s'acquistono, quali son virtù e cognizion di cose ottime, non poter non dolersi se fusse ad altri inferiore.
Scrive Livio storico che sendo la plebe romana, per molti debiti e usure gravata, discorde da' patrizii, implorò la fede e aussilio del consule Servilio, e molto el pregò avesse cara la salute loro, e da tanti e sì gravi incommodi li levasse. El consule contenendo sé mezzo e protraendo, nulla acquistò grazia dal Senato, molto da quella causa alieno, né sé tenne ben voluto dalla plebe, quale instava ne referisse al Senato. Ma seguìgli che da' patrizii fu iudicato troppo molle e ambizioso populare, e dalla plebe fu stimato fallace e doppio; onde breve poi e da questi e da quelli ne fu odiato.
Ma pure qui mi piacque Cesare, quale vedendo Crasso e Pompeio insieme non amici, per agiugnerli a sé ambodui e per lor grazia farsi maggiore, diede sé a compor fra loro unione e concordia. Così gli fu licito quivi e qui essere familiare e veduto assiduo.
E Platone scrivendo a Dione: «Debbo io sì», disse, «fra voi essere mezzano, se forse cadesse discidio, e riconciliarvi e pacificarvi; ma se concertarete d'odio grave, qualunque di voi voglio cerchi a sé altro adiutore».
Aristotele filosofo morendo in età d'anni sessanta e due, domandato da' discepoli pronunziasse qual de' suoi discepoli lasciasse in luogo suo come erede precettore degli altri (erano fra loro due Teofrasto lesbio e Menedemo rodio), tacque Aristotele alquanto; pur a questi che così instavano, ridomandato, comandò trovassero qualche più atto vino alla sanità sua. Portorongli vini ottimi di Rodi e di Lesbo. Gustò l'uno e monstrò gli piacesse; gustato l'altro, «e questo», disse, «ancora mi piace». Onde intesero Teofrasto lesbio e Menedemo rodio gli piaceano. Così laudorono la sua sentenza come per altro, così ancora che tanto servasse modestia, e tanto volse ancora morto non essere da tutti non molto amato.
Scriveno di Pomponio Attico, poiché vide la terra non poco per que' tumulti di Cinna essere perturbata, e non gli restare facultà vivere in dignità sua senza darsi a qualche di quelle parti quali insieme contendeano, si segregò, e asettossi in Atene dando opera agli studii; e ivi con liberalità fe' grato sé al popolo ateniense, e accrebbela vivendo sì che volse parere comune agl'infimi e pari a' prìncipi ivi cittadini. Fece ancora a grazia che favellava sì netta la lingua greca, come se fusse nato e allevato proprio in Atene, per qual cosa forse fu detto Attico. Silla, uno de' principi della contenzione, molto lo amava e pregiava le sue virtù, e richiedevalo fusse in suoi esserciti. Rispuose Attico: «Pregoti non volere avermi aversario a coloro co' quali non volendo io esserti contro, abandonai Italia». Lodollo Silla.
E simile poi nelle contenzioni di Cesare e Pompeo sé escusò vecchio e inutile alla milizia e a' campi; e per questo, benché aitasse gli amici di Pompeo con danari, non però fu da Cesare vittore male accetto.
E scrisse Tiro letteratissimo servo di Cicerone che, edificando Pompeo el tempio della Dea Vittoria in Roma, e volendovi porre suoi onorati tituli, era dissensione fra' litterati se dovea scriversi TERTIUM CONSUL o TERTIO C. Fu delata la disputazione e iudizio a Marco Tullio, quale prudentissimo comandò, per satisfare a tutti, solo si inscrivessero tre le prime lettere, TER.
E Chilone filosofo, scrive Laerzio Diogenes, chiamato arbitro fra due amici, per non offendere di loro alcuno, persuase provocassero da sé el litigio.
Fonte classica:
Diogene Laerzio
E Camillo dittatore, poiché e' si ebbe condutta la ossidione che potea subito, per quella quale egli avea sotto terra fatto via, irrumpere in la rocca de' Vei e prendere la loro terra molto ricchissima, avendo in mano tanta vittoria volse né intrare in invidia de Senato se forse donava tanta preda a' suoi esserciti, né venire in disgrazia del popolo e moltitudine se forse tanta preda riponea in publico erario. Adonque scrisse al Senato comandassero quello iudicassero da seguirne. Così costoro evitorono offendedre gli animi de' suoi.